Siamo saliti al Santuario per affidare a Maria, Madre di Misericordia, la Diocesi e la Città di Savona in questo tempo di passaggio ancora molto difficile: perché il virus non è stato ancora definitivamente sconfitto e perché abbiamo tutti molto timore che la crisi sociale ed economica si faccia ancora più  grave, nei prossimi mesi.

La paura rischia di diventare lo stato d’animo prevalente e ne è prova, con chiarezza drammatica, il forte calo della natalità, nei mesi scorsi. Le istituzioni non devono lasciare sole le famiglie, che, assieme al mondo della sanità, hanno portato sulle spalle il peso maggiore. Per questo, occorre davvero una politica del lavoro a misura delle famiglie: se questo tempo di crisi mostra che è solo la nascita di un figlio che può dare avvenire a un Paese, ribadisce anche, per l’ennesima volta, che è solo la possibilità del lavoro per tutti che può dare dignità alla vita.

Ma siamo qui anche e soprattutto per affidare all’abbraccio del Padre i nostri morti. Ed è bello che questa celebrazione sia stata desiderata da tanti: da alcuni familiari, che l’hanno esplicitamente chiesta; dalle istituzioni presenti, e in particolare dal Comune di Savona, che ringrazio nella persona del Sindaco, e certo anche da me e dalla Chiesa di Savona, qui rappresentata dai preti che sono riusciti a venire e da alcuni membri delle Comunità.

Celebro questa Messa per tutti i morti della nostra Diocesi per i quali non è stato possibile, in tempo di Covid, celebrare i funerali. Credo che questa impossibilità sia uno segni più chiari e drammatici di questo tempo: perché il piccolo nemico invisibile che ha sconvolto le nostre vite ci ha tolto anche la possibilità di farci prossimi alle persone care nel momento della prova più grande e del passaggio decisivo. E questo è proprio in-naturale e dis-umano: perché l’uomo da sempre sa che, nel momento del passaggio ultimo, bisogna esserci, con l’affetto, la preghiera personale e comunitaria, la presenza fisica. E questo non è stato possibile!

Cerco, per la nostra preghiera, di ascoltare con voi tre parole ci sono dette per la nostra conversione: la parola delle Scritture che sono state proclamate, ma anche il  grido silenzioso delle vittime, e la parola che in silenzio ci hanno detto in questi mesi i medici e tutto il personale sanitario: la Scrittura, le vittime, il personale sanitario. Voglio ascoltare queste tre parole perché non voglio che tutto torni come prima. E’ questa la grande tentazione: ripristinare le nostre abitudini e chiudere la parentesi.

E invece questo tempo ci dice che è l’ora di cambiare. Il virus non è certo una punizione mandata da Dio (e nessuno si azzardi a dire questa sciocchezza!), è però una parola da ascoltare, a partire dalla esperienza delle vittime, che ci dice, mi pare, due cose:

  1. la vulnerabilità, come condizione normale della vita, che sempre cerchiamo di rimuovere. “Il Covid-19 -lo dico con le parole di un prete, Maurizio Chiodi, che è stato vicino alla morte- è un’esperienza mortale perché ti colpisce in forme che hanno a che vedere con le esperienze più semplici della vita: il calore del corpo, nella febbre, e poi i dolori diffusi, le difficoltà respiratorie, la nausea, l’inappetenza, la diarrea”. Ecco: il virus ci ha fatto capire che non siamo onnipotenti e invincibili, che ci ammala e che si può anche morire: se lo capiremo davvero, sarà una grazia! Impareremo così a non nascondere le nostre ferite, ma ad accoglierle, senza vergogna: sono amate da Dio, e possono diventare una feritoia. Il nostro ego schermato e sempre sulla difensiva diventerà allora poroso, e saremo capaci di accogliere come dono gli altri e anche ciò che accade. Ma è un cammino da percorrere insieme;
  2. Pasqua, come legge profonda della realtà. E’ la seconda cosa che ci insegnano le vittime. “Tutte queste esperienze di patimento e di morte, per noi credenti, e per ciascuno a modo suo, sono un modo per vivere la passione di Gesù, stando in comunione con Lui…E’ proprio nell’umanità del Figlio che ciascuno di noi ritrova la propria morte”. E si potrebbe dire, parafrasando Elie Wiesel, che “Dio, nel Suo Figlio, era lì, in quel letto di terapia intensiva, in quella arsura e mancanza di respiro, Lui che sulla Croce chiese da bere”. “C’è infine -riprendo le parole di Chiodi- il giorno della Pasqua…Proprio qui il credente è chiamato a riconoscere che, al di là della guarigione, egli attende altro. La resurrezione di Gesù è più di un semplice risveglio…è il compimento di una promessa, è l’anticipo che ci dona di partecipare alla vita di Colui che è anche la nostra primizia”. Ed è quello che crediamo e speriamo, per i nostri morti, qui, in questa celebrazione.

La seconda parola da ascoltare è quella dei medici e degli infermieri: la parola della cura competente, al rischio della vita. Parola che ci ha talmente sorpresi che, per esprimere la nostra gratitudine, li abbiamo chiamati eroi. Parola -quella della cura e della prossimità- che avevamo dimenticato, chiusi come eravamo nel nostro individualismo narcisista e autoreferenziale. E invece il virus ci ha fatto capire che siamo insieme sulla stessa barca, e che non ci si salva da soli. E che solo se hai cura e attenzione per la vita dell’altro ritrovi in pienezza la tua stessa vita; altrimenti la perdi, nella tristezza annoiata che vuole evitare qualunque rischio.

“Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio”. La terza Parola da ascoltare è quella delle Scritture Sante. Tutto concorre al bene, anche il peccato, direbbe Sant’Agostino; anche il virus, certo in forme non volute e paradossali. E’, del resto, la lezione della genealogia di Gesù: Lui, il Figlio, viene da una storia (e sarebbe interessante fermarci su tutti i nomi riportati da Matteo!) segnata anche dal peccato, dalla violenza e dalla ingiustizia. Una storia piena di contraddizioni, come la nostra storia di oggi; una storia dalla quale però è venuto Lui, il Salvatore, atteso da Maria e da un piccolo resto.

Se sapremo imparare la lezione e ascoltare questa nostra storia, potremo accogliere di nuovo quel Vivente, Gesù, che è sempre rimasto fra noi, ma del quale, presi dai nostri affari, ci stavamo dimenticando. Se lo sapremo accogliere, diventeremo più umani e sarà grazia, per noi e per i nostri figli. Mi piace dirlo, per finire, con le parole della poesia: “è portentoso quello che succede. E c’è dell’oro, credo, in questo tempo strano. Forse ci sono doni. Pepite d’oro per noi. Se ci aiutiamo…Un comune destino ci tiene qui. Lo sapevamo. Ma non troppo bene. O tutti quanti o nessuno” (Mariangela Gualtieri).

Invochiamo Maria per i nostri morti, ma anche per noi. Perchè sappiamo imparare la lezione. Amen.