Questo è il tempo giusto per diventare preti. Del resto il tempo di Pasqua lo è per tutti i sacramenti. Il presbiterato, che tra poco riceverai, e tutti i doni sgorgano dal costato trafitto di Gesù, vengono dalla Pasqua. È bello ritrovare la gioia per questo tempo dalla resurrezione a Pentecoste. È il tempo giusto per tutti i sacramenti: per quanto possibile e opportuno, le prime comunioni dei bambini, la cresima e anche il matrimonio, tanta gente si sposa in questo tempo. Tutto sgorga dal costato di Gesù, tutto è dono e frutto della Pasqua.

In questo giorno di grande festa mi piace raccogliere, anche se brevemente, due pensieri dai testi che abbiamo ascoltato. Mi rivolgo a te, Francesco, ma anche a ciascuno di noi. Un’immagine e un gesto: l’immagine della vite e dei tralci, il gesto di Barnaba che prende con sé Saulo. Lasciamoci guidare nella nostra preghiera da quest’immagine e da questo gesto. L’immagine della vite e dei tralci è vitale ed eucaristica, ce ne accorgiamo facilmente. Non a caso siamo al capitolo 15 di Giovanni, nel contesto della grande cena, il giorno prima della morte di Gesù. Allora riandiamo col pensiero: il vino, la fratio panis, la lavanda dei piedi, le parole di Gesù, appunto la vite e i tralci.

Si tratta di ritornare sempre lì: vale per te, Francesco, ma anche per ciascuno di noi. Potremmo quasi dire un po’ paradossalmente che essere cristiani significa ritornare lì, nel cenacolo, per trarre ispirazione. Oggi quest’immagine ci guida, con il verbo ripetuto “rimanere”, come tralci attaccati alla vite. È la linfa, il dono dello Spirito, che ci unisce alla vite. Ecco ti viene consegnata quest’immagine, Francesco! È un dono grande e tu già adesso come presbitero spezzerai il pane dell’Eucaristia. L’Eucaristia non è semplicemente un rito, dice il segreto di una vita donata, la vita di Gesù.

Rimanere in quella vita, in quel segreto, significa fare anche noi, come Gesù, dono della nostra vita. Solo così portiamo frutto. Lo ripete più volte: “Rimanete in me e io in voi. Chi rimane in me e io in lui porta molto frutto”. Il reciproco rimanere è l’unica condizione del portare frutto. Il verbo “rimanere” ha tante declinazioni nella vita di ciascuno di noi: non vuol dire “forza muscolare”, “rimango lì quando me ne vorrei andare”, bensì perseveranza, fedeltà, intimità. Francamente mi piace che il rimanere non sia un verbo di moto. Qualche volta abbiamo l’idea di una Chiesa sempre in movimento, affaccendata, come fossimo un’azienda che deve produrre. Invece c’è uno “stare”, come Maria e il discepolo amato stavano ai piedi della Croce.

Si tratta di rimanere nella memoria del cenacolo, nella grazia di Pasqua, che è eucaristica, nella memoria dell’amore con cui Gesù ti ha chiamato, Francesco, e ti ha accompagnato negli anni della tua formazione. Appunto, un’immagine euristica e vitale. Dove c’è vita c’è però anche dolore. Ecco allora il coraggio di “potare”, “tagliare i rami secchi”, lasciare. Non è possibile rimanere senza lasciare. Ciascuno di noi sa cos’è chiamato a lasciare: penso a me, le pigrizie, le abitudini stanche, i pregiudizi, le aspettative. Quando siamo dominati da queste dinamiche certamente non c’è frutto, magari ci sono efficenza e organizzazione ma non c’è frutto secondo lo Spirito.

C’è anche un gesto che mi ha molto colpito: il gesto così bello di Barnaba, che è un gigante della prima Chiesa. Anche se forse non ci pensavi vorrei proprio affidarti, Francesco, alla custodia dell’apostolo Barnaba: che tu possa imparare da lui, il Barnaba degli Atti degli Apostoli. La sua vicenda è complessa, perché ad un certo punto sparisce. Barnaba prende con sé Saulo, lo conduce dagli Apostoli e racconta loro come aveva visto il Signore, che gli aveva parlato. È il gesto della custodia, dell’accompagnamento, della cura. Dice il testo che “tutti avevano paura di Saulo, non credendo che fosse un discepolo”.

Ecco la bellezza del gesto di Barnaba: prende con sé colui del quale tutti hanno paura, potremmo dire quasi paradossalmente il nemico, lo sconosciuto, l’estraneo. È questa la postura giusta del prete: prendere con sé tutti, i vicini e i lontani, gli amici e coloro dei quali abbiamo paura. Ti chiedo questo, Francesco: abbi il coraggio di prendere con te i tuoi fratelli e le sue sorelle, quelli che nessuno guarda e dei quali tutti hanno paura, i disprezzati e gli scartati. In quegli scartati forse si nasconde qualcuno come Saulo, che poi diventa Paolo.

Se il testo del Vangelo ci consegna il verbo “rimanere” il brano degli Atti ci consegna “accompagnare”. Sempre di più sono convinto che “accompagnare” sia il verbo fondamentale della vita del prete. Il prete non è innanzitutto chiamato a predicare, fare, agitarsi ma ad accompagnare i fratelli e le sorelle che anche oggi cercano il Signore, magari inconsapevolmente, senza pensarci. Penso ai giovani. Barnaba insegna a me, a te, Francesco, e a ciascuno di noi a prendere con noi i fratelli e le sorelle e accompagnarli al Signore.

Qualche volta siamo noi che pretendiamo di essere accompagnati, che la gente ci prenda con sé. Il carisma del prete non è questo ma accompagnare all’incontro con Gesù. “Rimanere” e “accompagnare” sono due verbi profondamente pasquali, generativi, vitali, primaverili, che aprono al futuro. Siano i verbi che prendi con te, Francesco, nel cammino nuovo che oggi comincia.

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“Ora devo imparare a diventare pane spezzato per gli altri”

Diocesi di Savona-Noli
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